Ira, furor, rabies, collera, stizza, focus!
CAPITOLO XXVII.
Intanto c'era chi pensava per me a sistemarmi co' fiocchi: una sera, mentre me ne stavo centellinando il mio quinto d'orvietano, èccoti la bona Sora Nena farmisi innanzi tutt'allegra, e mi presenta un bel ragazzino, biondo e con due begli occhi celestini; aveva una bella fronte spaziosa, un bel nasino aquilino e delicato, due labbra fine fine e una bocca stretta stretta (indizio di furbizia e d'astuzia); ma l'impressione, o, dirò meglio il senso intuitivo di apprensione che mi destò quel segno infallibile di furberia e di circospezione innata, sparì subito con le parole che mi disse, e più con certi sorrisi graziosi graziosi fatti da un angolo delle labbra con i quali infiorettava il suo dire: graziosi erano i sorrisi, e Graziosi si chiamava il futuro mio carissimo amico, che rispondeva al nome d'Aristide.
Veniva - presentato dalla padrona de' «Sette Colli» - a offrirmi una catapecchia - diceva lui con un garbatissimo sorriso dall'angolo sinistro delle labbra; e la Sora Nena mi diceva con le pupille, con la bocca, col petto, e con le mani: - Prendetela, Giulio, prendetela, ci starete bene e poi sono gente che ce ne fosse..! - e così dopo un quarto d'ora, mi trovavo dinanzi a una famiglia patriarcale, composta di un padre (il Sor Filippo) una madre (la sora Clementina) tre belle figliole (Elvira, Iginia e Cesira) tre fratelli (Gigetto, Aristide e Carlo); quella casa pareva l'Arca di Noè.
Il capo di casa, vero tipo romano, era un uomo affabile e gran parlatore; m'accorsi sin da bel principio che la famiglia non navigava in bon'acque; la madre - una santa creatura - nascondeva spesso le lacrime e si dava un gran d'affare per tirar innanzi con tanti figlioli a quel modo grandi, lavorando con le due figliole per raggranellare il desinare scarso e meschino; era codesta famiglia di Subiàco, venuta a Roma, come tante, all'entrar degl'italiani (come ci chiamavano) per tentar la rea fortuna.
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