Le mie ragioni devono aver pesato alquanto sui destini del buon Aristide, che ha finito poi - come io credo - pezzo grosso al Ministero delle Poste e Telegrafi.
Occupavo io una pulitissima cameruccia sur un giardinetto che di primavera s'arricchiva di pochi e tristi fiori; uno specchio alto e stinto, voleva dare un tono aristocratico alla camera, che possedeva due seggiole un cassettone e un lettuccio di ferro pitturato di verde; un comodino, un baulotto con dentro i miei libri (a poco a poco andavo rifornendo la mia libreria), un buttalà; ecco una stanzetta di giovinotto felice! Ma felice non ero, perchè chi avrebbe potuto rendermi tale, viveva lungi, molto lungi da Roma, e le sue appassionate lettere, che mi toglievano l'appetito e il sonno, erano un fuoco segreto che mi consumava e rendeva la vita un martirio.
Mi consolavo nello studio e m'era conforto assai la conversazione del buon Aristide che portavo meco spesso a colazione e a pranzo e meco s'intratteneva, e col quale facevamo lunghe escursioni in Roma, spingendoci fuori di porta, a San Paolo, a San Pietro, su' Colli circostanti ad ammirare e studiare la Storia Romana sulle pietre e i documenti vivi che ne sono, per dir così, le pagine palpitanti.
Io non m' ero accorto, però, che un palpito segreto animava il gentil cuoricino d'Igina; io non mi accorgevo che il mio cassettone, i miei vestiti, i miei libri, sentivano il soave tocco della mano della buona fanciullina; tutti i giorni, tornando a casa, trovavo sul comodino, in un bicchiere pieno d'acqua, un mazzolino di rose, di verbene, di garofani, di violette, secondo la stagione.
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