Scendendo un giorno dal Pincio e inoltrandoci, - quasi già di notte fatta, - sulla piazza del Popolo; nel passare accanto al monumentino che c'è nel centro della piazza scorgemmo col capo sulle ginocchia, un giovine bello come Gesù Cristo, dell'apparente età di trent'anni; ci avviciniamo e lui alza il capo guardandoci: aveva gli occhi azzurri con un fondo violaceo a pagliettine d'oro; capelli d'un biondo ricco dorato, due baffi sottili e lunghi, una bocca di bei denti e rosse labbra; rotto e strappato negli abiti, con le scarpe strapanate, la roba che gli cascava di dosso; era insomma il vero tipo del barabba, come dicono a Milano, o del vagabondo teppista come si dice oggi. Senz'aprir bocca, senza chieder nulla, si toglie rispettosamente il cappello e saluta. Mi fermo, ed ecco il dialogo così come ancor mi suona nel cuore e nell'anima:
- Oh che fa lei qui, a quest'ora giovinotto?
- Eh - caro Signore - non so dove andare; non ho denaro; sono sconosciuto, straniero...
- Ma - dico io - dall'accento mi sembra veneziano; non ha nessuna amicizia; non ha lavoro?
- Nè amicizie, nè lavoro: arrivai da Venezia un mese fa; non trovo dove occuparmi; non ho mangiato da tre giorni, e non so come procacciarmi il pane per me e per le mie bambine. (E a questa confessione, copiose lacrime scendevano silenziose sulle guancie emaciate del povero giovinotto). Tutto commosso rispondo;
- Coraggio - amico; - l'uomo che si dispera è uno stolto; a tutto c'è rimedio meno che alla morte. Venga, venga con noi; qualche santo provvederà: s'alza, lo prendo a braccetto, lo conduco con me al primo caffè, gli faccio mettere in corpo un caffè e latte, un pajo di panetti, e poi senz'altro me lo porto nella mia cameretta, tolgo il materasso, lo stendo in terra e gli cedo il mio letto; ma protesta che vuol dormir lui al suolo.
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