Quando credevamo giunta l'ora lo vestivamo da vescovo, con una gran tovaglia di bucato; una mitra fatta con un giornale; un aspersorio, che generalmente era un granatino di saggina e gli facevamo dir messa: aveva una voce di basso profondo che avrebbe spaccato un tamburo; la gente s'accalcava alle finestrucole inferriate a sbellicarsi dalle risa quando cominciava con una voce stentorea:
- Introibo ad altare Dei
- In nomine patris et filiis et spiritus Santum.
- Amen... (rispondevamo noi con una vocina in falsetto, imitando il chierichino, e così andava avanti un bel pezzo, finchè - rosso come un gambero fritto, con una faccia che metteva paura, col litro alla bocca gridava:
«Ite missa est, canaglia merdochea!».
La grand'amicizia che passava tra noi; le frequenti visite che io gli facevo a Isoletta; gli scritti che egli mi chiedeva per il Dovere, per la Voce di Roma, erano tanti pruni negli occhi del Cav. Binda, papalino emerito prima, spia della Direzione Generale e di tutti i Ministeri ora.
Io mi sentivo come prigioniero a piede libero: cosa sapevo io a diciott'anni delle furbizie degli uomini e di certi uomini? Eppure, in fondo in fondo, il Cav. Binda m'aveva messo gli occhi addosso per l'utile suo e forse mio ed ecco in qual modo.
Nell'inverno di quell'anno famoso che si chiamò del '70, una terribile inondazione coprì d'acqua tutta la Roma trasteverina, e immani sciagure sovvrastarono alla catastrofe. Roma, non si riconosceva più; i quartieri bassi completamente sott'acqua fino a tre e quattro metri dal livello della strada; barche e pontoni percorrevano le strade più colpite portando soccorsi, prima, per salvare la vita a que' poveri inondati, poi pane e cibarie.
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