I compagni d'ufficio, invidiosi, mi sconsigliavano; gli amici, che mi stimavano e volevano bene, mi spingevano ad accettare e finalmente a malincuore dissi di sì! sorridendo, direte: eh eh! quanta importanza si dà quest'uomo perchè un altr'uomo lo chiama a lavorare con lui! Piano, piano - vi rispondo: - io non ero nulla, è vero, ma l'accettare o no un posto di responsabilità, un posto invidiato, e che attirava su di sè tutti gli odi del personale delle tre linee e di cinquantadue ufficj, non era cosa da pigliarsi a gabbo. Lasciavo la mia indipendenza, la compagnia spensierata della famiglia telegrafica, per diventare anch'io - in certo qual modo - un aguzzino in sedicesimo. Rapporti, punizioni, multe, traslochi, inquisizioni, reprimende, tutto doveva passar dalle mani mie; funzione odiosa e terribile: o essere una canaglia o un angiolo; o far del bene o far del male! Povero Giulio Pane, a che misera condizione ti aveva esposto saper qualcosellina di più degli altri e passare per un ragazzo «che promette bene» in mezzo agli asini; e pensavo, tra me: è proprio vero che il proverbio latino deve aver ragione: «Beati i monoculi in terrae coecorum!» A vent'anni avevo imparato da me due o tre lingue ed ero in ufficio, l'interprete di tutti i forestieri che venivano a far dispacci: quando mi toccava la nottata, mi vedevano arrivare con una mezza libreria sotto il braccio; dizionari e grammatiche, erano i miei compagni di servizio. Sfollato il grosso del lavoro, passata la mezza notte, chiusa la contabilità del giorno avanti, aprivo i miei scartafacci e passavo nel mondo dei sogni, due o tre ore perfettamente fuori di me: nessuno potè vantarsi che fossi colpito da multe per inadempienza ai miei doveri, nessuno potè vantarsi - come me - di rispondere alla prima chiamata che mi fosse fatta a qualunque ora della notte!
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Giulio Pane
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