Di su le mura, spingendo l'occhio lontano - dal baluardo San Donato - scorgevo il monte di Quiesa, oltre il quale, in una fiamma di sole e d'azzurro, fiorisce Viareggio adagiata mollemente sulla riva tirrena.
E sognavo di quella amabile, per la quale - in certo qual modo, - s'erano riallacciate le prime emozioni dell'anima al balenar d'un volto, per un mesto sorriso, per un palpito sconosciuto.
Dov'era Luisa? che avrebbe fatto a quell'ora? si ricorderebbe di me? figgendo gli occhi laggiù laggiù, per quanto illudessi me stesso che era vanita via l'adorabile imagine sua bionda e vaporosa; pure - che so - sentivo ridestarsi e tumultuare nel più intimo cantuccio del cuore, qualcosa che non era spento ancora; ceneri tepide d'un incendio tramorto, folate di profumi di fiori svaniti, appassiti, quel profumo orribilmente pauroso delle corone funerarie che ricordano, per tanto tempo ancora, la spietata rapina della morte.
Poche ore prima d'andare al vapore per lasciar Lucca definitivamente, entrai nel palazzo ducale a chieder se c'erano lettere per me: ero costì fermo da due minuti e l'impiegato stava per consegnarmi una lettera diretta a me al solito pseudonimo di Enrico Mac Claurin col quale carteggiavamo con Virginia; quando due signore mi si fermarono dietro le spalle. Io non facevo caso più che tanto a una di queste che mi guardava intensamente con due occhi di fuoco di sotto la fittissima veletta del cappellino: erano - s'indovinava facilmente - madre e figlia. Mi volto con la mia preziosa lettera in mano, alzo gli occhi, fisso la più giovine.
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