E, veramente, quelle non erano tempeste elettriche, ma l'imagine stessa della Titanomachia d'Esiodo; fulmini di tre, quattro scintille guizzavano serpenteggiando dal cielo fino al cratere vesuviano, con una frequenza così spaventevole, che neppur l'occhio più perspicace avrebbe potuto contarli: si precipitavano in forme di corone, d'archi, a freccia, sinuosi, verticali, come globi di fuoco, grandi come case, volumi di bracia, massi di fuoco, azzurro, rosso, porpora, bianchi come l'argento; colonne di luce elettrica che scoppiettavano sprizzando tutt'attorno torrenti di faville sui fianchi ardenti del vulcano, e ricadevano da quattrocento, cinquecento metri d'altezza sopra il mostro ruggente, riempiendo di luce e di pauroso romore il cielo circonvolgente: e questo per uno, cinque, venti giorni di seguito.
Era - come ho detto - un cielo color piombo di giorno, color sangue di notte; il mare di Napoli così azzurro, chiaro e sereno, era diventato color sangue o piombo liquefatto, con riverberi di lampi e fuochi elettrici tali, che appena, gli occhi potevano sopportarne la lucentezza febbrile....
Era uno spettacolo maraviglioso, ma, al tempo stesso, capace d'infondere terrore nel cor più saldo.
Napoli intera tremava, da cinque giorni, dalle fondamenta sue più profonde.
I miseri abitatori vagavano stupefatti in grandi processioni dai centri della città verso la marina, dove la credula pietà di quegl'infelici aveva eretto come per incanto migliaja d'altari e imagini votive.
Tutti fuggivano, temendo, da un momento all'altro, il rovinìo e franamento della città - perchè, chi - in quella tremenda convulsione della terra, del fuoco, dell'elettricità non avrebbe raffigurato, in quei momenti spasmodici della natura, la sorte infelice di Pompei e d'Ercolano?
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