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      Ebbi la fortuna però di rivederci il mio caro Sandro - se il buon lettore se ne ricorda - che avevo lasciato a Siena nel '69, e che non avevo più riveduto da un pezzo. Fu per me una vera gioia, perchè gli ero veramente affezionato e lo amavo come un fratello, e lui mi ricambiava di pari affetto e con stima tale che rasentava l'adorazione.
      Il mio carattere, però, subiva un profondo cambiamento: la vita appassionata con Virginia, e rinfocolata con lettere nelle quali tutt'e due mantenevamo accesa una fiamma che avrebbe consumato dieci anime; lungi dal placare gli affetti e gli stimoli insoddisfatti del cuore e del cervello; inacerbivano invece l'uno e l'altro e tenevano lo spirito in un continuo e doloroso tormento, a calmare il quale, purtroppo, non vedevo l'uscita nè vicina nè lontana.
      Io dubito che si possono ripetere, sulla terra, due casi uguali al mio, pure, era tanto forte la mia appassionata affezione, o amore (come si voglia chiamarlo, chè non saprei veramente che nome dare a una febbre che mi teneva mezzo matto e perduto dietro sogni irrealizzabili); era - dico - tanto forte e tenace la catena che m'avvinceva, che solo nella filosofia e negli alti studi, trovavo conforto alla perpetua agitazione dell'anima. E m'era davvero conforto ineffabile l'amicizia di Sandro e quella soavissima della buona Margherita, che, come già dissi, era maestra, o istitutrice, in casa di una cospicua famiglia fiorentina.
      Sapeva le ore che mi trovavo al lavoro; verso l'imbrunire, quando la città passa, insensibilmente, dalla chiarezza del giorno alle tinte tranquille del crepuscolo; appariva la dolce fanciulla sulla piazza Valfonda, accompagnata dalle due bambine sue allieve, e, con aria timida, quasi tremante, trattenuta forse dal pudore della sua bell'anima innocente, senza malizia del mondo; attraversava il marciapiede di fronte a quella specie di chiosco che c'era allora e che si chiamava pomposamente «Ufficio Telegrafico» di Santa Maria Novella.


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La vita di Giulio Pane
di Giulio Tanini
Tipogr. Waser Genova
1922 pagine 497

   





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