- Eppure, povero Placidi - aveva ragione: passarono vent'anni e seppi - (domandando di lui) - che era diventato cieco affatto: e giocava sempre? Chiesi al mio amico Cav. Betti ispettore a Roma, che il caso mi fece intoppare un giorno sotto la tettoia di Pisa: - «Eh eh - rispose: ora Gigi è un signore; vinse 47.000 lire anni or sono, e piantò subito il servizio come diceva di voler fare: sta benone, meno che, poveraccio, è cieco affatto.»
Ma ritorno al racconto.
Avevo, dunque, quella notte in ufficio il buon Gigi Placidi che, senza dire una parola, aveva seguitata la notte a far le sue famose cabale; alle cinque (ora cui s'apriva il Buffet) lo mandai a prendere il solito caffè - questa volta per tre; - la scena che avevamo presenziato era stata per noi delle più commoventi; la povera signora sembrava pietrificata e per quanto le facessimo coraggio, in quella circostanza, non ci sarebbe voluto meno d'una madre o di una sorella.
Sola e senza persone che la conoscessero, accettai volentieri la preghiera di non andare a dormire alle otto al cambio del turno, per esserle di qualche servizio e spedirle il bagaglio e metterla sul diretto di Napoli: perchè essa era veramente più morta che viva, e mi sarebbe parso di commettere una vera inurbanità lasciarla così da egoista, per due o tre ore di riposo, di più o di meno. Alle dieci infatti la misi in treno, e poichè si chiudevano gli sportelli m'accingevo a ritirarmi salutando la straniera come meglio sapevo; quando vidi che essa, lesta lesta mise la mano in una borsetta, ne cacciò fuori un marengo e voltandosi disse:
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