Una volta amanti, ci abbandonammo con una specie di dolce disperanza alla nostra passione; non avemmo piú limiti; ella pure era tal natura da non conoscerne. Avremmo quasi desiderato di soffrire, di porre il nostro amore come ostacolo alla nostra felicità, al nostro avvenire, per rendercene meritevoli. Ci sentivamo struggere dalla smania di sacrificare qualche cosa l'uno all'altra. Cosí eravamo troppo immeritatamente felici. Non potevamo dare un prezzo a quelle gioie; le sentivamo troppo intense, troppo profonde!...
Ci raccontammo tutta la nostra vita. Ci trasfondemmo l'uno nell'altra senza rossore, senza dissimulazioni, senza esitanze. Essa aveva vissuto poco nel mondo, aveva sposato a sedici anni un uomo che le era indifferente, non aveva mai amato, nessuno le aveva mai chiesto dell'affetto, adorava suo figlio. In quella vita di isolamento e di disamore era nondimeno felice.
Come tutte le donne veramente ingenue s'era data a me senza fingere, senza esitare; essa aveva pensato a lungo alle conseguenze della sua colpa; aveva lottato a lungo; ma una volta decisa, si era abbandonata senza ritegno. Non so se ella ne arrossisse e ne gemesse in segreto; il suo contegno non lasciò mai penetrare in me questo dubbio, essa non mi parve mai che felice. Mi diceva spesso con aria di credulità e di spavento, affatto puerile: - Sono cosí felice che ho paura di morire.
Il suo rimpianto piú acerbo era di non avermi conosciuto prima; non si doleva dell'avvenire che il tempo ed i suoi legami ci avrebbero, o tardi o tosto, attraversato, ma del passato che avevamo vissuto lungi l'uno dall'altro, senza conoscersi, senza sapere che esistevamo, di quei bei giorni della prima gioventú che non avevamo potuto trascorrere assieme.
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Fosca
di Igino Ugo Tarchetti
pagine 213 |
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