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      Nell'affetto sincero e quasi paterno che egli nutriva per sua cugina, era invece felice di quella specie di sollievo che pareva recarle la mia compagnia, lieto di quell'interesse che io sembrava prendere alle sue sventure.
      Egli mi lasciava solo con lei nella sua camera, d'onde io non usciva spesso che oltre la mezzanotte. Non sospettava neppure che altri avrebbero potuto sospettare. La sua fiducia non aveva limiti. Quella cecità provvidenziale che la natura ha dato ai mariti e agli amanti, era in lui sí piena, che ove io avessi amato quella donna, avrei potuto abusare della sua fede colla maggiore sicurezza possibile. Né oso dire ora quanto mi affliggessi di quell'abuso parziale che era costretto a farne. Questo cruccio era una delle amarezze piú acerbe di quell'affetto; poiché, quasi non avesse bastato a torturare la mia coscienza il conoscerlo sí leale e sí ingenuo, egli mi aveva fatto alcune confidenze che mi avevano potuto dare una misura della stima altissima in cui teneva il mio carattere. Mi aveva raccontata tutta la vita di Fosca, quale io l'aveva appresa da lei, e mi aveva parlato con dolore dell'affanno in cui lo poneva il pensiero delle sue angoscie intime e della sua salute incurabile.
      - Questa spina - mi aveva egli detto sovente con quel suo linguaggio rozzo, ma schietto ed affettuoso - è ciò che non mi lascia avere un'ora in pace. Non v'è cosa sí fuori di posto come una donna che viva con un soldato. Portarla di qua, portarla di là... co' suoi nervi, ella che non ha piú salute di un invalido!


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Fosca
di Igino Ugo Tarchetti
pagine 213

   





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