Io rimaneva tra le sue braccia, inerte, muto, inorridito, cogli occhi chiusi per non vederne il volto, atterrito dal pensiero che una mia imprudenza avrebbe provocato in lei quelle convulsioni, durante le quali avrebbe potuto tradire inconsciamente il nostro segreto. Nei pochi momenti di calma le leggeva qualche libro, o parlavamo del nostro passato; e io mostrava di metter fede e interesse nei progetti strani e impossibili che ella formava pel suo avvenire. Allora ella era spesso ragionevole, spesso anche amabile, sempre buona; il suo dire era sí aggraziato, sí facile, e le modulazioni della sua voce sí dolci, che a non vederla si poteva rimanere incantati della sua compagnia.
Negl'intervalli di benessere che le lasciavano di quando in quando le sue infermità, era vivace, lieta, qualche volta scherzosa. Alzata, era altra donna. Lo sfarzo dei suoi abiti, i suoi profumi, i fiori di cui riempiva le sue stanze, sembravano metterla in una luce piú serena, e circondarla d'un'atmosfera meno lugubre. Benché que' suoi acconciamenti sí ricchi dessero maggior risalto alla sua bruttezza, non la rendevano però sí spaventevole. In quei momenti v'era nella sua persona qualche cosa di vivo, di giovane, di voluttuoso che il letto e la malattia non lasciavano apparire.
Passava quasi tutto il giorno in un suo gabinetto dove non riceveva altre persone che suo cugino ed io. V'era colà un ampio divano di velluto turchino, sul quale mi faceva sedere vicino a lei; mi aveva assegnato un posto alla sua destra, ed esigeva che non mi sedessi in altro punto del divano che in quello.
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Fosca
di Igino Ugo Tarchetti
pagine 213 |
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