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      Mi ubbidí senza rispondere.
      Il paese dove ci eravamo fermati era un piccolo villaggio di poche case, e distava dieci minuti di strada dalla stazione. Il convoglio non sarebbe ripassato che fra sei ore, era necessario attendere in un luogo caldo e coperto; non v'erano carrozze, pioveva ancora, e bisognava percorrere a piedi quel tratto di cammino che ci separava dal paese.
      Offersi il mio braccio a Fosca che lo accettò e vi si abbandonò come fosse stata sul punto di svenire. La copersi in parte del mio mantello. La via era tutta fango, tutta pozzanghere, e vi affondavamo fino alla caviglia; tutta la campagna era coperta di neve; stuoli innumerevoli di corvi stavano appollaiati sugli alberi; e saltellavano da un ramo all'altro senza discenderne. Noi camminavamo in silenzio; io stringeva il braccio di Fosca, e sentiva la sua persona tremare per l'emozione e pel freddo. Soltanto una grande fermezza di volontà poteva dare a lei quella forza.
      Appena giunti al villaggio, vedemmo una casa sulla cui porta era dipinta una corona d'ellera, e nel mezzo di questa una bottiglia e un bicchiere riuniti da una larga pennellata di minio, che voleva figurare uno zampillo di vino, il quale pareva spicciare dal bicchiere e versarsi nella bottiglia che era piú piccola. Entrammo in quella bettola. Era una stanza a piano terreno, piena di carrettieri che vi stavano bestemmiando, bevendo e fumando in piedi, come fossero stati sulle mosse per partire. Alcune tavole nere, grasse, bisunte, erano disposte attorno alle pareti, e parevano trasudare olio; un odore ributtante di chiuso, di liquori, di fumo di cattivo tabacco ammorbava quell'atmosfera in modo da renderla irrespirabile.


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Fosca
di Igino Ugo Tarchetti
pagine 213

   





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