Ci levammo le tuniche e rimboccammo le maniche della camicia. Scorreva lí presso un rigagnolo; il dottore vi bagnò un fazzoletto, lo torse, e mi legò il polso. Ci diedero le sciabole, ci collocarono di fronte l'uno all'altro, misurarono le distanze. Io aveva sul mio avversario il vantaggio della statura, egli quello dell'agilità. Era un uomo piccolo, secco, nervoso; e i suoi occhi inquieti e vivaci che non cessavano di affissarmi, indicavano in lui un'energia e una risolutezza che io era ben lungi dall'avere.
Fu dato il segnale. Il colonnello tentò subito e con agilità impareggiabile un colpo decisivo, un colpo a bandoliera che io non evitai che in parte ritirandomi. Egli mi squarciò la camicia dalla spalla destra fino al fianco sinistro, e mi segnò una lunga scalfittura sul petto. Un orlo di sangue comparve subitamente lungo tutto lo sparato. Però nel ritirarsi si scoperse, e dal canto mio lo colpii al braccio, ma la rimboccatura della manica rese il mio colpo inoffensivo.
Ci ordinarono desistere, esaminarono la mia ferita, ricominciammo.
Scambiammo parecchi colpi senza alcun frutto. Io era assai piú abile del mio avversario, e se avessi nutrito odio per lui o avessi avuto maggior coscienza del pericolo cui m'esponevo, non avrei trovato difficoltà ad uscirne con vantaggio. Dopo pochi minuti, il colonnello era ansante, sfinito. Ci riposammo.
Facemmo un terzo assalto. Io era piú che stanco, annoiato; mi limitava alla difesa, e mi difendeva debolmente. Il colonnello aveva riacquistata nuova energia, il dispetto lo aveva, per cosí dire, ringiovanito, accompagnava ogni colpo con un grido secco e breve come è costume dei duellanti, e tentava ferirmi al petto di punta.
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Fosca
di Igino Ugo Tarchetti
pagine 213 |
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