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      Le quali misure, giudichi ognuno quanto fossero atte a riparare a cosiffatta disgrazia, e come non dovevano immiserire questo bel paese, già gramo per una prepotente dominazione. Basti il dire che il Petrarca, ospite caro a Milano, il quale aveva stabilito di terminarvi i suoi dì tra le carezze della figlia e del genero, partissi al primo infierire del morbo nel 1361, nè più vi fece ritorno.
      E quasichè non bastasse la morìa a spopolare e a far misera Milano, cominciò il cielo a imperversare in sull'aprirsi della primavera, e a cader una pioggia non mai interrotta fin presso al finire di luglio; talchè le biade ne rimasero al tutto guaste e distrutte. Da ciò nacque un'orribile carestia che condusse una moltitudine di persone a morir di stento, e attirò in Milano gran parte de' contadini e dei montanari, i quali cacciati dalla fame versavansi a frotte nella città già ridotta allo stremo. Nè le limosine di Galeazzo Visconte, che furono molte e generose, nè quelle di Bernabò, valsero a trarre il paese da sì profondo abbattimento; e nel mese di novembre, in cui ebbero luogo gli avvenimenti che imprendiamo a narrare, quantunque il contagio fosse cessato d'un tratto, e la carestia avesse dato luogo alquanto, profonde erano tuttavia le tracce della desolazione e della morte.
      Però, la curiosità, che fu primo retaggio dell'umana schiatta, e poscia principale attributo della plebe e delle femmine, aveva anche adesso fatto mostra del suo potere; ond'è che in onta alla peste ed alla carestia, in onta al dolore che struggeva l'animo de' cittadini superstiti, la maggior parte di essi traeva alla piazza della Vetra per essere testimone di uno spettacolo miserando, d'una sventura più grande dei due flagelli mandati dal Signore.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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