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      Bernabò Visconti, non appena tornato dal suo castello, ove passava il tempo cacciando, aveva pubblicato un editto, col quale minacciava fierissime pene a chi avesse ucciso cinghiali od altre salvaggine, ch'egli amava sopra modo. Nè pago di ciò, comprese nel medesimo editto tutti coloro che fossero accusati di averne ucciso alcuno nel periodo di quattro anni addietro; e si diè con ogni cura a cercare i rei. È facile immaginarsi che non mancarono le accuse, in parte vere, in parte anche false, perchè in ogni tempo e in quello specialmente, non mancarono tristi personaggi ed odiosi, che stimarono innalzar sè sulla caduta degli altri. Il perchè più di cento, tra plebei e cittadini, furono convinti, Dio sa come, di codesto delitto di lesa salvaggina, e condannati alla perdita degli occhi, poscia ad essere appiccati. La qual crudeltà, non nuova in quei tempi di barbarie e di dispotismo, ma terribile in un'epoca di tanta pubblica calamità, doveva certamente accrescere e l'abbattimento de' poveri milanesi e l'odio a così strana oppressione. E tuttavia per quanto universale fosse lo squallore e unanimi le maledizioni per sì feroce atto, la moltitudine, fedele al suo istinto, non poteva privarsi di uno spettacolo favorito, e col fiele nell'animo trascinavasi al luogo del supplizio. La prima condanna era già stata eseguita il giorno innanzi nel palazzo dello stesso duca: ora rimaneva soltanto l'appiccatura, per la quale erasi eretto un gran palco capace non che di cento, ma di mille persone, se alcuno vi fosse stato, cui avesse fatto gola un ballo all'aria.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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