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      La sera medesima la figlia interrogata dal genitore se acconsentiva ad aver per marito l'armajuolo, aveva abbassato gli occhi e mormorato un sì inintelligibile a tutti fuorchè al solo Stefano che, pigliatala per mano, giurò che avrebbe vegliato sopra di lei e l'avrebbe amata fino alla morte. In tal guisa essi furono marito e moglie.
      Ormai erano scorsi sette anni da quel dì, e la domestica tranquillità dell'armajuolo non era mai stata turbata da verun tristo avvenimento: solo la morte del padre di Cecilia, avvenuta due anni dopo, aveva cagionate alcune lagrime, le quali furono facilmente asciugate dalle carezze di un fanciullino, cui l'armajuolo aveva posto nome Marco in onore del Visconti sotto i cui auspicii aveva inaugurato la sua felicità. E Stefano poteva dirsi compiutamente felice, se fosse stato men uomo di quello che era, e se avesse potuto chiuder sempre un occhio a tempo e luogo. Ma troppo spesso ricordavasi di essere il primo fra i campioni milanesi e di aver fatto mordere la polve a molti di quegli spavaldi che andavano ora con aspetto tronfio e superbo e guardavano in cagnesco i poveri cittadini. Oltrecchè era di cuor buono e generoso e le miserie della sua città gli mettevano una rabbia nello stomaco che prorompeva ad ogni istante e che la sola Cecilia valeva a frenare. Nel forte della pestilenza, egli aveva soccorso molti cittadini con ogni maniera d'ajuto, e vantavasi che il cielo l'avesse risparmiato, anzi che lo facesse sempre più prosperare in salute. E ciò, diceva egli, a dispetto di que' rozzi manigoldi del duca, che l'avrebbero voluto infilzato sulle coltella.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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