Il cane giaceva disteso, quant'era lungo, su uno strato di paglia, coperto all'infretta da alcuni stracci di lino. Egli era volto colla pancia all'insù, a cagione della percossa che gli era toccata proprio nel basso del ventre, e gli aveva prodotto un'enfiagione, con un lividore intorno di sangue rappreso. Ma il male che vedevasi all'esterno era un nulla, perchè alla fin fine un'enfiagione, per quanto sia ostinata, dove non ceda sotto l'azione dell'aceto, deve ammollirsi e sparire cogli empiastri refrigeranti. Il maggior guaio stava nel di dentro, dove il gran colpo ricevuto e il rimbalzo nella parete doveva aver cagionato un guasto terribile, e ciò argomentavasi dal respirare affannoso del cane e da una specie di sommesso guaito che di tanto in tanto gli scappava dalla gola. Ben è vero che il latte versatogli per la bocca e meglio ancora l'olio trangugiato aveanlo ristorato alquanto, e aperto il cuore di tutti alla speranza; ma fu l'affare d'un istante, perchè il male ripigliò tosto la sua violenza e lo ridusse nello stato, in cui lo trovò adesso l'armajuolo. Egli giaceva supino, come abbiam detto, e colle gambe stirate e quasi stecchite, gli occhi aveva socchiusi e lagrimanti, il capo penzolone da un lato, il corpo sgocciolante un sudor freddo, come di chi è vicino a mandar l'ultimo fiato. A vederlo adesso non riconoscevasi più il bell'alano, alto, maestoso, snello, colla pelle lucidissima, sparso di alcune macchie che lo rendevano ancor più bello, cogli occhi animati, col portamento ardito, col muso regolare e pieno di nobiltà, se è lecito adoperare tale espressione per un cane.
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