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      Il suo portamento era grave e risoluto, rozzi e duri i lineamenti, ma la fisonomia presentava una mistura di ferocia e di bonomia, che facilmente traeva in inganno. L'occhio però fisso e quasi impietrito nell'orbita manifestava il carattere strano e caparbio, di cui diè sì aperte prove. Indossava un robone di velluto violaceo foderato di ermellino e sormontato da un cappuccio che coprivagli quasi sempre il capo: disotto aveva il giaco di ferro, precauzione necessaria anche a un principe così temuto. Sulla fronte calva e rugosa vedevasi una ciocca di capelli grigi che sfuggiva di sotto al cappuccio, solo ornamento del capo, se ne eccettui una barba lunghissima e bipartita sul mento, siccome voleva il costume di que' tempi. Il qual costume venne poco dopo distrutto dai francesi che diffusero in Italia il gusto dei visi pelati, come vediamo dipinti i successori di Barnabò. Il che prova che la superiorità della Francia in fatto di mode non è cosa moderna, ma data da tempi antichissimi.
      Ora, poichè Barnabò fu giunto nel mezzo del cortile, si trattenne alquanto, e guardossi attorno in atto d'uomo che vuol riconoscere il luogo ove si trova; appunto come un ammalato che esce per la prima volta all'aperto e guarda le vie già da lui battute quasi fossero una cosa nuova. Poscia rivoltosi a Rodolfo che gli stava alla destra, gli disse:
      - Per s. Ambrogio, non mi par vero di trovarmi qui a quest'ora nel mio palazzo di s. Giovanni alla Conca. In verità io teneva per fermo di non uscire dal mio forte di Marignano che al dì del giudizio, quando il diavolo avrebbe fatto risuonare a' miei orecchi la sua tromba infuocata.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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