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      Il povero Stefano dovette rifar la via e tornarsene al Carobbio, nella porticina dove prima era stato. Ma anche là un silenzio da cimitero, e l'uscio inchiodato come poc'anzi. Torna alla Vetra, va, gira, rigira, cerca un viottolo, cerca l'altro, capita di bel nuovo nel Carobbio, ma tutto invano, nessuno sa dirgli qualche cosa. Che fare adunque? L'ora della mostra era passata, ormai non c'era più modo a trarsi d'impaccio, laonde stimò opportuno di recarsi a casa e provvedere in qualche guisa ai casi suoi. Abbiam già detto che Stefano era uomo coraggioso e deliberato, sicchè nessuno maraviglierà nell'udire che sul punto d'aver perduta ogni speranza, egli avesse ricovrati tutti i suoi spiriti. Il vero coraggio è così fatto; teme del pericolo s'è incerto, ma quand'è inevitabile lo affronta con viso sicuro. E Stefano, ora che sapeva di che piede bisognava zoppicare, non era uomo da stare colle mani alla cintola e da sciuparsi in vane querele. Pertanto si pose la via tra le gambe e cheto cheto avviossi alla volta di casa sua. Ma quando fu lì per voltar l'angolo degli Armorari, per dove entravasi difilato nella bottega, si trattenne alquanto, e non potè cacciare un pensiero che gli martellava la mente. Che la vecchia Marta fosse tornata? Era questa l'idea che lo metteva in forse, e che impedivagli di proseguire il cammino. Quella maladetta speranza, che se piglia a pigione un povero cuore non lo lascia mai, faceva ora all'armajuolo uno dei soliti scherzi ch'ella fa agli innamorati.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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