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      - Hai fatto male, Martino, dovevi lasciarvele per non aver taccia di ladro.
      - Ladro io? Oibò, quanto a ciò ho la coscienza leggiera che è una maraviglia. Alla fine è roba nostra, che ho preso, ed è ora una volta che ritorni nelle nostre tasche tanto danaro che cola nelle mani di quei tristi. Alla peggio poi io le ho raccolte da terra nella vostra camera, e non devo sapere chi ve le abbia seminate.
      Così favellando eransi internati nelle stradicciuole che attorniano la piazza della Vetra, in una delle quali era posto il convento degli Umiliati, detto in Mirasole dal nome del luogo ov'era stalo fabbricato. Potevano essere le sei ore all'incirca della sera, quando i nostri due conoscenti batterono alla porta del convento, rallegrandosi tra se di non essere stati scorti da nessuno. Al terzo picchio più forte e più solenne degli altri, s'udì un rumor di passi sotto l'andito ed una voce nasale esclamare borbottando:
      - Venga la peste a costoro che disturbano i divoti nel loro santo uffizio. Chi è là?
      - Deo gratias, rispose Martino con accento sommesso. Siamo due pecorelle smarrite che si raccolgono all'ovile.
      - Ho capito: due vagabondi che la fame ha cacciato sin qui in cerca di cibo. Già adesso che la carestia vi batte nei garetti, siete tutti umili e timorati di Dio, che è una consolazione, e il santo ovile vi è tornato in grazia. Oh! andate nel nome di Dio; la carità è per quelli che se l'hanno guadagnata.
      - Quanto a ciò, padre Andrea, spero di non esserne al tutto immeritevole, disse Stefano riconoscendo alla voce colui che gli parlava.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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