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      Il fanciullo guardò tutto dolente il padre suo, poi fattosi vicino, gli salì sulle ginocchia, e colle braccia avvinghiatosi al collo, si diè a coprirlo di baci. L'armajuolo rimase ancora per qualche tempo nella sua attitudine meditabonda, e parve far forza a sè medesimo; infine, cedendo a quell'impulso naturale che gli sorgeva nell'animo, prese il ragazzo tra le sue mani e, guardatolo con atto d'ineffabile tenerezza, non disse che queste due parole: - Povero Marco. - Ma quelle parole dinotavano bastantemente che il cuore di Stefano era vinto, e che la sua mente cominciava a rischiararsi. Allora Martino non aspettò ch'ei ricadesse nella sua tristezza, ma voltosi d'un tratto a lui, gli disse:
      - Or via, messer Stefano, che cosa dite che dobbiam fare?
      - Partire tosto di qui, rispose l'armajuolo senza alzar gli occhi, intanto che con una mano seguitava ad accarezzare il fanciullo.
      - E dove volete che andiamo? chiese di nuovo il garzone.
      - Dove il diavolo ci porta. Che mi fa a me del luogo? disse Stefano corrucciato. Qui già non tira buon'aria per noi.
      - Ma frate Pasquale m'ha dato sicurtà di rimanere, finchè ne piace, e m'ha detto che ci avranno tutte le cortesie possibili in memoria di quei due martiri che oggi furon falli morire.
      - Lo so, lo so, rispose Stefano sospirando, che tutti volevano un gran bene al padre Teodoro, ed anche al padre Andrea, e che per ciò ci avrebbero riguardo siccome appartenenti a loro due. Non è dell'ospitalità di questi buoni frati ch'io temo; poveretti, essi hanno fatto tutto quello che possono a nostro prò.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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