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      Tu lascerai ogni cosa dilettaPiù caramente; e questo è quello strale
      Che l’arco dell’esilio pria saetta.
      Nè a quel vaticinio pensavo io quando nel 1835 lo rifacevo a me stesso ne’ versi scritti da me in valle d’Arno:
      Fia mercè d’un pio consiglio,
      D’un gentil ardir fia penaLa franchigia dell’esilio
      O l’onor della catena.
      Forse un giorno andrai mendicoSenza ingegno e senza amico
      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
      Il Petrarca egli amava; e me ne leggeva non sole le rime di ravvedimento, e quella parte del Trionfo d’Amore ch’è dei Trionfi una delle più felici e ne descrive le ambascie e gl’inganni, ma delle rime d’amore stesse, sciegliendone le più pure, tra le pure, e tra le artifiziate le più schiette e più delicate. E, andato in Arquà come a pellegrinaggio non d’accademico o di viaggiatore, ci scrisse un sonetto il cui verso ultimo che dice: S’io fossi vissuto vivente te:
     
      Vien, detto avresti, ch’io ti stringa al seno;
     
      ritraeva la famigliarità che collega insieme le anime gentili divise da’ mari e da’ secoli; e prenunziava la famigliarità che doveva poi stringerlo al Poeta che con più puro e ispirato cantico dell’amatore di Laura cantò Maria. E mi ricordo un giorno quando in Milano, ridicendo io i versi sì nuovi d’alta semplicità
     
      La mira Madre in poveriPanni il figliuol compose,
      E nell’umil presepioSoavemente il pose,
      E l’adorò, beata;
     
      il Rosmini preso da subito commovimento, per celarlo come le anime forti fanno degli affetti modesti, mi si tolse d’innanzi e uscì in altra stanza.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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