Poco favelli, oh! dubbio il volto e mestiAlquanto gli occhi, e taciturno il labbro
No non terresti ove mirarmi in fondoDato ti fosse e di contra quante ore
Dolci cancelli a me furtivo il sensoDell’odiata lontananza. Or teco
Più nè rido nè scherzo, e non ragionoDi Lei che agli occhi de’ mortai dischiude
Gli eterni semi delle cose e i primiInconcussi elementi; e te non miro
Immoto, o che tu m’esca in l’alta menteLe idee divine, o sia che alcun de’ molti
Genìi latini ti discenda in petto.
Oh quanti il core uman, quanti mai sempreNel più ridente d’esta aerea vita
Nel contristan quaggiù vermi nascosti!
Ma allor che ’n Cielo io miro, ivi m’acqueto.
Poichè gli eventi de’ mortali ignariLegge occulta d’amor tempra e corregge;
Non fu certo per sciocco o rio destinoChe dalla patria dalmatina spiaggia
Desti la proda verso Italia, e ’l ventoAffrettò ’l corso dell’antiche antenne.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Qual forse si prepara al bel paese.
Serie per te di gravi opre Romane,
O dell’Italia ormai figlio diletto!
Quai giorni a me, quali ore! A te quai sorti,
O vate amico. Questi campi e questeDocili selve e questi monti e ’l piano
Sanno il tuo nome ormai; e l’aere intornoMesto ti chiama, oh quante volte al Sole!
Quante alla Luna! E la tua musa invoca.
Pur tu non l’odi, o non l’ascolti? Ah piegaLa rigidezza del tuo core alfine;
Vola fra noi. Suolo vedrai sassoso,
Ma a nutrir molli cuori avvezzo; angusto,
Ma larghe menti a contener capace.
Scritto parmi nel Ciel, che questo estremoLembo d’Italia, non dissimil forse
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