Oltre a questo Dalmata, un terzo dal Roveretano fu sempre avuto in amore e in onore, Antonio Bassich, della cui virtù fin da giovanetto m’attestava Dionisio Solomos poeta illustre, cose credibili a uomo di rito greco e di veramente greco acume; il Solomos stato suo condiscepolo in quel collegio di Venezia dov’era direttore il dotto Traversi, il quale conobbe anch’egli il Rosmini e l’amò. Il Bassich poi, fattosi prete, fu onorato delle persecuzioni di quel Paolovitch a cui Silvio Pellico diede non desiderabile fama con poche parole tanto più gravi quanto più temperate. E non è mio trovato nè colpa mia se Piemontesi e Dalmati e Trentini, se la bella riviera di Cattaro e le belle rive del Verbano, se il prospetto del Calvario di Domodossola e il prospetto del Montenero, se le carceri di Venezia e le carceri di Moravia si rincontrano in una stessa memoria consociate.
Il Paravia nella lettera che nel 1819 indirizza al Rosmini, si duole che la lingua francese pigli troppo luogo nelle teste italiane; che uomini i quali non saprebbero scrivere corretto in italiano quattro parole, si facciano un vanto di biascicare il francese il qual pare più facile; che le signore leggano le preci in francese; che gli scrittori sminuzzino e sleghino alla francese il costrutto; che si compiacciano in quel giuoco d’antitesi il quale può più giustamente notarsi ne’ Francesi non sommi che questi non notino negl’Italiani i così detti concetti; si duole che il linguaggio de’ pubblici uffizi sia contaminato di modi sciagurati; che i giornali e gli opuscoletti facciano lo stile più e più immeditato e sciatto; che i teatri con traduzioni bislacche e con nuove cose meno originali delle traduzioni seminino nelle moltitudini nuova barbarie; osserva come certi umili preti di villa per sentire e usare un dialetto sì, ma un dialetto italiano, e per fare più italiane letture, scrivano men visigoto che assai preti di città e letterati di grido; accenna che il vocabolario non è, come il Monti voleva, la cagione dello stile cattivo, ma che lo studiare la lingua ne’ vocabolari anzichè negli autori (e meglio che negli autori sarebbe nel migliore uso vivente) la fa essere languente e morta, nè le renderà mai la sua nobile ed onorata qualità. E questa lettera e la risposta del Rosmini uscirono in quel giornale che in Padova continuò per più anni il Conte da Rio, uomo dotto e d’antica probità, con suo grave dispendio e con costanza che da certi eroi del minuto secondo sarebbe oggidì, nonchè non imitata, derisa.
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