Egli ama la scienza non ignudata, non secca e sparuta, ma vestita e splendente; e sente come la scienza faccia il dire più scelto ed eccellente e magnifico, e come la filosofia segnatamente sia scienza ubertosa: e assapora il Platonico miele. Vede il vantaggio che dalla scienza può trarsi agli studi delle lingue, e da questi a quelle; vede come connettasi la perfezione del linguaggio con quella delle dottrine; come la letteratura sia invigorita dal sapere e quasi fornita di radici; e come il fare la scienza avversa alla lingua sia un fare il sole avverso alla luce. Nè vieta ch’anco nelle gentili scritture si seminino parole di scienza, quasi orme di piede umano in amena campagna, nè vieta la conoscenza delle lingue straniere, anzi dipinge la dottrina vera come donna che per tutto il mondo conduce l’uomo, e le lingue de’ varii popoli gli consegna quasi chiavi del pensare de’ sapienti in qualunque piaggia nati e sotto qualunque cielo vissuti. Ripete e amplia il detto di Vitruvio che vuole tinto di tutte le scienze l’architetto; e raccomanda quella liberalità di pensare, che non al proprio studio solo tien l’occhio, ma ancora agli altrui serenamente riguarda.
Anco al cattivo insegnamento appone il Rosmini questo della lingua snaturata dall’indole della nazione, e non già come a prima causa del male, ma come ad effetto anch’esso di cause più gravi, e compiange con le parole d’Orazio la boria de’ maestri decrepiti di senno nella immaturità degli anni o nella vecchiaia ragazzi, i quali - «Nulla fuori di ciò che piacque loro - Veggon di retto, o perchè credan turpe - Consentire a’ minori, e fatti antichi - Disapparar ciò che appararo imberbi». - E qui con sorriso doloroso compiange quella malattia che da altri paesi pare si sia, come la colerina e la crittogama, diffusa adesso in Piemonte, del voler insegnare ai bambini non d’ogni cosa un po’, ma ogni cosa di nulla, giacchè non c’è maestro in Piemonte nè al mondo che sappia tante cose quante ne deve il bambino al suo esame dire.
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