A credere questo piuttosto che l’altro m’induce il vedere che fin negli anni maturi, fin ne’ dolori della malattia sua mortale, fioriva sulle sua labbra il sorriso a velare la mestizia, e la celia a ricoprire qualche verità troppo austera, o fare accessibile qualche avvertimento tropp’alto. E mi sovviene che, leggendogli io ne’ Promessi Sposi, non ancora usciti alla luce, il colloquio di D. Abbondio con Federico e la sovrana comparazione del povero prete spaurito dalla coscienza de’ doveri suoi che il suo Vescovo gli ricordava, ad uccello ghermito e rapito in insolite altezze; il Rosmini fece un cenno fra di sorriso e di brivido da dimostrare com’egli entrasse ad un tempo e nella mente del Vescovo e nella testa del pievano con senso misto di compiacenza e pietà. Certo è che neanco nell’età meno esperta gli uscirono mai di bocca celie sconvenienti, le quali egli in altri riprendeva col silenzio, per tema che la parola paresse indiscreta o immodesta. E nondimeno quella ilarità che a quando a quando mi suonava ironia (chè la virtù e il senso prendono senza volerlo sembiante d’ironia, appunto perchè si temperano dagli eccessi, e la stessa temperanza aggiunge loro e finezza e autorità), quel vederlo abbassarsi a trastulli quasi puerili, senza intenderne il perchè, dispiaceva, confesso, alla giovinezza mia più turbata che raccolta, più torba che mesta.
VI.
Le lettere sue agli amici, non erano pur gaie, ma gravi sin dal primo ove il soggetto chiedesse; nè egli scansava i soggetti gravi, ma non li cercava nè anco per ismania di far mostra di buon gusto o di sapere, o di bontà, o di prudenza, ma dall’esercitare lo zelo del bene, che piglia quasi febbre le anime nuove e sospinge le non ben potenti di sè, è dote rara.
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