Aveva Ambrogio in sua casa collezione ricchissima di stampe belle di tutti i tempi e delle varie maniere; e istillava nel nipote l’amore segnatamente di Raffaello, nella cui vista assidua l’occhio e il sentimento di lui si educavano come in colloquii d’amico. L’espressione morale vagheggiava egli però fin d’allora; e di lì l’esteriore eleganza vedeva fiorire, come da causa gli effetti. Fece poi nel 1823 il viaggio di Roma, e conobbe Pio VII; e raccontava come il buon vecchio si compiacesse in ragionare di Napoleone, non come del suo carceriere, con quella pace ch’è propria de’ non ingenerosi anche offesi, con l’equità ch’è debita massime a’ vinti, con la riverenza affettuosa che la virtù vera sente verso le grandi facoltà largite da Dio anco a chi non sempre ne faccia buon uso: e forse il prete, senza renderne ragione a sè stesso, sentiva di non essere stato mai tanto re quanto allora che re non era, e invece di rancore provava, mista a pietà, gratitudine verso il potente caduto che gli aveva fatto sperimentare un nuovo genere di più quieta e più cristiane potenza.
Le memorie dell’arte rimasero sempre al Rosmini care: e quando nel 1831, ch’era uscito già il Nuovo Saggio e la Metafisica lo aveva tutto, quando ci incontrammo in Firenze lung’Arno, egli si ricordò del ponte dell’Ammannati come di memoria patria; e quando nel quarantotto stette in Roma a più lungo soggiorno, scriveva di quella città com’uomo che le cose meglio conosciute con nuovo studio rinnovella nel proprio pensiero, e con la triplice fede nel vero e nel buono e nel bello ricrea i monumenti e risuscita i secoli.
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