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      Ma non aveva il Rosmini il bisogno d’attingere da’ suoi professori la scienza e la coscienza, e giudicava modestamente ma autorevolmente loro, che per verità l’onoravano con amore: e vedeva me o mettere in versi sdruccioli i sacri canoni o leggere l’Arte de’ Giardini, o quale altra cosa non mi rammento. E’ mi consigliava fare del mio latino qualcosa di grande, I Fasti, tra le altre, del Cristianesimo, soggetto proposto anche dal buon Muratori, e che comporterebbe quanta mai ricchezza di poesia può volersi. Nè egli intendeva che s’avessero a ricalcare le orme d’Ovidio, giudicato da lui forse troppo severamente dietro al giudizio del Vannetti; il quale in una sua lettera notava nel troppo facile verseggiatore difetti di stile e di lingua, come se noi sapessimo tutta davvero la lingua latina, come si possa sapere davvero mai lingua morta o altra da quella che fin da’ primi anni si ode parlare e si parla; come se in quelli stessi che adoriamo per aurei non si riscontrino modi i quali, a non rammentare di chi sono, da latinisti più consumati rigetterebbersi come barbari. Ma il Rosmini intendeva svogliarmi d’Ovidio (ch’egli pure aveva studiato) per più affezionarmi a Virgilio, anima ben più compiuta. Se non che la fede ch’egli poneva nell’ingegno mio, anzichè insuperbire, mi metteva con stupore vergogna: perch’io avevo gli orgogli del giovane e quelli un po’ del selvaggio, forse la coscienza non ancor bene svolta del cittadino; le borie del versificatore, e del letterato le vanità non avevo.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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