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      De’ quali difetti e’ m’additava l’origine insieme e il rimedio, raccomandandomi non più d’una volta e con atto amorevole, ma tanto più memorando, raccomandandomi pazienza: con che egli intendeva non solo il contenersi dall’ira ingiusta e dalla indegnazione ancorchè ne’ sembianti generosa, ma sostenere il tedio (più tremendo a certe anime del dolore), e rattenersi dalla precipitazione.
      Quand’io mi risolsi di stare da me, egli se ne dimostrò, non offeso, accorato; e non volle trovarsi alle dipartenze, e mi lasciò in quella vece parole scritte, quali il cuore le detta. E sempre poi mi rivide frequente con volto e animo uguali: tanto poco egli aveva da mutare nelle mutate condizioni del convivere nostro. Un giorno - siano concedute queste particolarità alla memoria del cuore - un giorno io l’accompagnavo in fino alla porta di Casa Castelbarco, credo suoi lontani congiunti abitata già da quell’inclita Nice, il cui bel nome commuoveva di strane smanie il Parini, flagellatore de’ magnanimi lombi: ma Nice, matrona del resto ragguardevole, era già morta, nè il Rosmini risicava di rincontrarci il prete mezzo Archiloco e mezzo Anacreonte. Le anime nostre in quel punto consentivano in concento più intimo dell’usato, come un bel cielo in certi momenti ineffabili e rari apparisce quasi rivelato di nuova bellezza, parte per la disposizione dell’occhio che lo riguarda e del pensiero che in sè lo riflette, parte per un più vivo vibrare dell’aria e de’ fluidi che la corrono, e parte per una meglio conserta e graduata armonia di colori.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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