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      I motti frizzanti di ch’altri si sarebbe adontato, non l’arricciavano punto. Quando in Rovereto il cugino suo Carlo, lo storico, fu colto da un tocco che gli prenunziò la sua fine di men che due anni dopo (giacchè le morti subite non sono improvvise se non a chi tali le voglia), riavutosi lui un po’, ma tuttavia con viso di morto, un tale o per pietà o per cortesia o per adulazione o per sbadataggine o per tutte insieme queste cose, si rallegrava della sua buona cera; ma lo Zamboni, temendo che quel complimento mettesse il letterato in più apprensione e non amando canzonature in momento così serio, soggiunse di botto: chi dice il contrario? Del qual modo d’accordare insieme la verità e la pietà si compiacque il Rosmini, che pur poteva prenderlo come un atto d’irriverenza contro i cugini nobili in genere, schizzinosi non meno de’ nobili Zii.
     
     
     
      XXIII.
     
      E acciocchè questo non paia un panegirico d’imperatore o un’orazione funebre di duchessa o di letterato, confesserò ma non senza esitazione e pur per iscrupolo di sincerità che faccia essere la lode più pura e più piena, confesserò che difetto pareva a me nel Rosmini giovane il sospettare d’altrui qualche rara volta, come sogliono i fortunati del mondo: del qual moto primo che non era giudizio ma imitazione forse d’esempi autorevoli, nè mai nuoceva all’esercizio del bene, egli poi con potenza represse i minimi impulsi; tanto che pochi felici e infelici, e virtuosi per abito, e per natura indulgenti, credo offrissero prova di fiducia più veggente insieme e più affettuosa.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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