Può essere che innanzi a Dio sacrifizii fecondi di merito più sublime siansi celebrati e si celebrino, e forse l’offerta dell’ignorante oscuro, del reo che incomincia appena a ravvedersi, ha innanzi a Dio merito ben maggiore: ma s’io ricerco nella memoria de’ tempi due intelligenze, due cuori, due saperi, due fame più pure e più grandi, collocate così l’una all’altare e l’altra a pie’ dell’altare, e così semplicemente eminenti, con tanta varietà consonanti; non ce lo trovo: e vedendo serbato questo spettacolo all’età nostra, all’Italia, a un angolo del Piemonte, sento che disperare della nostra età e dell’Italia sarebbe ingratitudine a Dio, o alla natura (se piace così) delle cose.
Il poeta che ci fa assistere agli ultimi sospiri di due donne affettuose, Ermengarda e la madre misera milanese, agli aneliti ultimi di due forti umiliati, Adelchi e Napoleone; doveva, esso, assistere con ambascia di spirito forse più grave che quella del moribondo alle ore ultime d’Antonio Rosmini; e raccomandargli l’anima, ora leggendo qualche terzina del Paradiso di Dante, ora ripetendo al moribondo le preci che dice nella sua gioia e nel suo dolore il bambino piccolo, il villico semplice, l’umile femminetta. Nè da migliore cattedra fu commentato il verso di Dante che da questo letto di pene, nè armonia più piena lo può accompagnare che l’affetto di queste due anime; nè onore più grande toccò all’esule infelice morto anch’esso circa l’età del Rosmini, che il trovare parole degne d’essere interpreti di tale amicizia, apportatrici di consolazione ad una cristiana, ad una contemplante agonia.
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