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      Dal ventotto al trentatrè visse, tranne il soggiorno di Roma, il Rosmini in cima a quel monte, sotto un tetto mal difeso dalle intemperie, mezzo in ruina, visse in astinenza ancor più del solito austera, senza mostrare d’accorgersi per ben tre mesi di minestra non condita di sale, accomodandosi a spazzare la casa, come il Muratori la Chiesa. A un chierico infermiccio lavava con le sue mani i piedi, andava in cucina egli stesso con quel medesimo animo che faceva tutti i dì la sua ora di meditazione, inginocchiato, reggendosi sopra sè senza appoggiare le braccia. Ma quella soave intensione di mente a lunghi voli nell’alto dell’idea e dell’affetto (e anco chi non ci crede, deve pur confessare, quello che a lui pare vuoto, essere altezza), quella intensione gli faceva più agile la mente eziandio al discorso degli umani pensieri.
     
     
     
      XXXVIII.
     
      Invitato a predicare una quaresima in Domodossola, prese per tutti i sermoni un tema unico a svolgere, l’imitazione di Cristo, egli che questa parola intendeva in senso non rettorico e non servile ma tanto più alto e bello di quel d’Aristotele, quanto dell’Etica e della Rettorica aristotelica la Morale e la Poesia cristiana è più bella e alta; egli amoroso leggitore del Kempis, che giovane, ne faceva a me dono d’una edizioncina elegante, con queste parole: piccolo segno di grande amicizia. E giova rammentare che delle prime stampe pregiate di Venezia è un volgarizzamento del Kempis, e che un Veneto, il Cesari, doveva rifarlo con affettazioni meno del solito discordanti, e riuscirne una delle opere sue migliori.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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