Domandava taluno come fosse che quel cervello uso a lavoro tanto intenso non infermasse esso, e la morte preoccupasse organi men nobili, meno faticosamente esercitati: ma appunto il cervello assorbendo l’operosità della vita faceva altri organi men validi all’uffizio loro, che pur doveva essere forte assai da ministrare alle virtù cerebrali: ed è legge della materia e dello spirito, del viver morale e del civile, che l’infermità venga dall’attività soverchiante dell’una potenza, non perchè questa sia attiva, ma perchè toglie alle altre potenze la debita attività.
XLI.
Quanto ai dolori dell’animo, non è già che il Rosmini non li sentisse, o volesse far le viste di non li sentire, sincero in ogni cosa, e da affettazione alieno; ma i suoi dolori eran altro da quel che potesse parere a taluni, per ciò stesso più profondi, ma insieme compensati da consolazioni più alte. Il buono ne’ dolori è non pure più tranquillo che altri non sia nelle gioie, ma è più felice; perchè ha le sue gioie ineffabili la sofferenza. Addestrato fin da giovane a patire il tedio, ch’è sorgente delle più acri infelicità; abituato alla signoria di sè stesso, alla libertà non pure dal giogo della materia, ma e dalla tirannia dello spirito proprio; e’ non avrebbe potuto persuadere a chi non sapesse indovinarlo, quanto i suoi fossero diversi dai dolori volgari. Uno appunto dei tedii delle anime forti è l’accorgersi ch’altri ti creda soverchiamente amareggiato e ne patisca per te, e tu patire della sua compassione e non trovar modo da dimostrargli che in quell’amaro è misto un dolce più puro d’ogni dolcezza; e intanto non sapere se la parola o il silenzio valgano meglio a disingannare chi t’ama.
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Rosmini
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