Nil tibi de religione religiosissimo dicam: de philosophia tamen pauca. Optime quidem asperulis hisce disciplinis animum quum appelleres, litterarum eas humanitate et lepore hilaritatas esse voluisti. Inamabilis enim, atque ideo ad hominum coetus, quibus philosophia potissimum inservire debet, inutilis, ne dicam etiam (rerum non recte intellectarum abusione) perniciosa scientia est, nisi humaniorum litterarum spiritu animetur, ornamentis comatur, mollitudine juvenescat». E finiva; e, grazie a Dio, s’è avverato anche questo . . . «Meque non animi dolore, non fortunae casibus, non locorum longinquitate a tui amore divulsum iri arbitrere».
Nè ci ha divisi la morte: io l’ho più prossimo, più assiduo, più intimo a me; che mi dice parole di dolcezza inesauribile e di severità più attraente d’ogni umana lusinga. Dopo il 1827 per meno di un’ora lo vidi nel 1831 a Firenze; poco più d’un’ora a Stresa nel marzo, nel giugno minuti. Che se la memoria, trasvolando tanti anni, me ne riporta quasi rami fiorenti di regione lontana, tanti ricordi che il tempo ravviva e ingemma di lagrime; come posso io non desiderare che i suoi colloquii mi fossero conceduti quando sarei stato un po’ più in grado di riceverne profitto e più attento a farne tesoro per averne finem animo (lo dirò col potente verso di Persio, di quei versi che sono una diretta ispirazione di Dio, e che, illustrati dall’esperienza, non si ripensano senza uno strazio confortatore):
Finem animo miserisque viatica canis.
XLVI.
Mi volgo da ultimo ai giovani, e dico: vedete in questo granello d’arena ch’è il nostro pianeta, quanto di regioni e di secoli ingombro di selvatichezza o di barbarie, o di civiltà schiava e tiranna: vedete ne’ pochi luoghi e ne’ tempi meglio civili, che pruni d’gnoranza, che frane d’errore, che ruine di ruine; quante miserie colpevoli, quante meschinità atroci, quanti odii senza provocazione, quante stragi senz’odio, quanti misfatti senza pretesto, quante ruberie senza lucro.
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