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      V
     
      Tempo è che vediamo ancora meglio come la storia di questo popolo, la quale sembra voler essere eccezione dalle altre, possa farsi a noi tutti maestra. Impariamo primieramente di qui, come a voler compire un’impresa grande sia condizione principalissima la coscienza della propria missione; come le voglie svogliate, i lenti tentamenti, le speranze che piegano or qua or là ad amminicoli umani e bassi, non bastino, siano anzi augurio pessimo. Non solo quelli tra’ conquistatori che resero servigio alla civiltà più diretto, sentirono d’essere chiamati a questo, e ricevettero da tal sentimento una qualche dignità e autorità; ma quelli stessi che incorsero depredando e distruggendo, o gridavano espressamente d’essere flagelli di Dio, ministri d’una grande giustizia, o dimostravano co’ fatti d’averne il mandato tremendo. Ma, lasciando di questo, a render ragione d’ogni conquista, a legittimarla o scusarla, richiedesi che l’uomo, nell’atto d’ubbidire a una potenza maggiore della propria, eserciti una qualche virtù che lo renda maggiore del popolo contro il quale egli è destinato a combattere, lo renda rispettabile o tollerabile al popolo ch’egli prende a voler liberare. La vittoria è tentatrice, e porta nel suo grembo il veleno che la spegnerà, se il fortunato non usi per rimedio una provvida diffidenza di sè, una fraterna confidenza e una pietà rispettosa verso coloro co’ quali egli è per entrare in consorzio, e fors’anco in lotta.
      Una ingiusta vittoria può essere da fatti susseguenti espiata e quasi legittimata; può essere, contro il volere de’ vincitori e de’ vinti, nelle mani di Dio un riparo a mali più gravi e più schifosi e più lunghi, una lenta e dura educazione mutua, quasi cammino asprissimo al meglio: ma può d’altra parte la vittoria legittima, conseguita in guerra di difesa santa, nonchè d’offesa, essere profanata da indegne intenzioni, da mezzi ignobili, essere dall’abuso frustrata, conversa in ignominia e rovina.


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Esempi di generosità proposti al popolo italiano
di Niccolò Tommaseo
Edizioni Paoline
1966 pagine 258

   





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