Era Càleb serbato a sopravvivere a’ due grandi conducitori del popolo, Mosè e Giosuè: la tenacità della sua generosa fiducia nei comuni destini doveva essere quasi rappresentata dalla tenacità della vegeta vita. Vita più piena non so se rincontrisi in tutta la storia: perch’egli vide la sua gente oppressa inaffiare de’ propri sudori la terra straniera, e lavorò forse anch’egli con le sue mani a taluna di quelle piramidi che noi vediamo tuttavia sorgere dal deserto quasi sfingi giganti, enimma della potenza e del nulla umano, trofei della tirannide e della morte. Poi vide i miracoli della liberazione: e prima ancora che questi incominciassero, il germe della fede ch’e’ nutriva nel cuore, gli venne fecondato dalla parola di Mosè, e fiorì a un tratto in opere di pensato coraggio. Poi vide i miracoli della solitudine ancora più grandi; come una greggia immensa, inesperta dello spontaneo ubbidire e del libero comandare a sè stessa, a dispetto delle proprie diffidenze e mattìe, fu condotta dalla verga d’un solo pastore; e le sue cupidigie e paure non la dispersero quasi rena del deserto; e, unita, seguitò la sua via, come fiume che rumoreggia chiuso tra forti argini ed alti. Poi vide una nuova mèsse di meraviglie sotto il raggio ardente di Dio germinare in pro del suo popolo; e, vincitore della comune disperazione e delle contraddizioni fraterne, ch’è il più terribile de’ nemici, varcò il fiume sacro, e vide l’arca del patto fermata sicuramente sotto tende ospitali; e stette a lungo tra le generazioni novelle, monumento vivente delle benedizioni d’Israello e delle divine magnificenze.
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