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      Ma quando i seguaci di Abimelec re vennero alle mani con essi, non si sentirono allora tanto coraggio; e caddero vinti o si spersero.
      La guerra s’era, del resto, dilatata, e dava al tristo re duro impaccio. Fra le ribellanti era una città nominata Tébes, munita d’un’alta torre: e Abimelec la assediava. Entro alla torre s’erano rifuggiti i maggiori cittadini del luogo, e uomini e donne assai e combattevano fieramente. Abimelec ardito sotto la pioggia delle saette veniva co’ suoi; ed era già presso alla porta, con rami d’alberi e con fuoco per bruciare la porta, e aprirsi il passo. Quand’ecco una donna dalle mura l’adocchia e prende un pezzo di macine da mulino, e glielo gettò sulla testa, e gli fracellò le cervella. Lo trascinarono indietro, che combatteva con la morte. E quel disperato chiamò il suo scudiere e gli disse: «Sguaina la tua spada e feriscimi». L’ubbidì lo scudiere. Non vedeva il re miserabile, che in quel modo e’ periva per mano insieme e d’una femmina e d’un servitore; ché la spada del servitore non gli risarciva la ferita fattogli dalla femmina. Così per orgoglio negò a sé la consolazione estrema del chiedere pubblicamente perdono a Dio, e del volgere al suo popolo un’onesta parola. La costui vita e morte dimostra com’egli non pensasse che a sè. I cattivi, massime quando arrivano a comandare, si scomunicano dalla patria.
      Tolto di mezzo Abimelec, fu levato l’assedio; e nessuno lo pianse. Ma i buoni, già oppressi da lui, gli avranno avuta più commiserazione che i tristi suoi complici nella iniquità.


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Esempi di generosità proposti al popolo italiano
di Niccolò Tommaseo
Edizioni Paoline
1966 pagine 258

   





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