Abner a quella domanda con simile noncuranza rispose: «Così la vostra vita sia lungamente gloriosa, com’io non ne so niente». E Abner, allorchè fu ritornato dal campo, lo presentò innanzi a Saul; non già che a lui, capitano superbo, importasse dimostrare gratitudine e riverenza verso quel poveretto; ma non ne poteva a meno. Venne Davide tenendo pei lunghi ruvidi capelli il teschio del gigante e nella fronte insanguinata pareva un terz’occhio aprisegli fondo. E re Saul gli domandò: «Di che famiglia sei tu, giovanetto?». Davide rispose: «Isai, servo vostro, è mio padre; che sta in Betlemme». Nelle accoglienze del re, tra la gioia del passato pericolo, si vedeva non so che confusione del dovere tal gioia al figliuolo di Isai. Non si ricordava più Saul d’essere anch’egli nato uomo di campagna e povero e d’oscura famiglia. Fissava gli occhi nel giovanetto, parte per leggergli in cuore s’egli insuperbisse di quel benefizio portato a Israello, parte per confondere l’umil pastore con l’aspetto della reggia maestà. Ma l’umile pastore lo riguardava libero e sereno senza nè peritanza nè orgoglio; e rispondeva alle sue moltiplicate interrogazioni con senno candidamente. Onde il re lo guardava sempre più sospettoso e più torvo; e i sorrisi della sua degnazione parevano come lampi di nuvola nera. Faceva le viste di compiangere la sua giovinezza: e i grandi uffiziali dell’esercito misurando dal proprio animo l’animo del re, dimostravano di non si curare punto del figliuolo d’Isai. Ma i soldati semplici e tutto il popolo povero lo accarezzava riverenti; il fratello maggiore che lo aveva tanto acremente gridato, adesso non sapeva che si dire.
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