Onde Saul ruminava l’amarezza di quelle parole, come se un giudice le avesse profferite, ed egli, il re, dovesse al giudizio sottostare; e diceva: «A Davide diedero il vanto di diecimila, a me di mille? Or che più resta se non che diano il seggio del regno a lui?». Saul da quel giorno guardò con occhio torto il giovanetto; il quale non si addava punto di ciò, e con parole innocenti esulcerava forse la piaga nascosta del re geloso. Nell’invidia lo spirito del re sempre più s’infoscava; come, al morire del dì, le cose a poco a poco perdon colore negli occhi dell’uomo; e prima le piccole e lontane si smarriscono, come se camminassero via nel buio, poi le grandi e vicine perdono i contorni, e par che s’affondino in un mare di tenebre. Questa immagine stava a Saul nel pensiero: Davide che cresce e grandeggia sopra la grande persona del re, e un sasso scagliata dalla fionda pastorale fischiando viene e fa cadere di capo al re la corona. E quanto più egli si sforza non sentire quel canto delle giovanette che cantavano i diecimila domati da Davide, e tanto più risuonavano a lui quelle voci.
Chiuso nelle sue stanze, e’ piangeva di rabbia; poi meditava vendetta: ma vendetta di che? Davide che cosa gli aveva mai fatto? Avrebbe bramato il re infelicissimo trovarlo in colpa; ma l’innocenza del giovanetto irritava l’odio suo cupo; e il dissimularlo tornava in quotidiano tormento. Nella lode stessa del re era veleno, nel sorriso era fremito. A chi gli parlasse di Davide, non degnava rispondere: a chi non gliene facesse motto, n’entrava egli da sè: profferiva parole tronche, gettate in mezzo alle parole altrui, come trave fra’ piedi a chi passa.
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