I lumi del campo, che prima luccicavano per il deserto come poche stelle in cielo freddo e nuvoloso, e lo facevano vieppiù mesto a vedere, erano tutti spenti. Non canti di guerra, non bisbiglio di voci, nè scalpiccio di piedi, nè scalpitar di cavallo: ma tale una quiete muta, che udivi il russare de’ guerreri più prossimi, e tra le felci giallicce il passare del vento. Disse Davide a’ due ch’eran seco: «Chi di voi fra tenda e tenda entra meco insino a Saul?». «Vengo io», disse Abisai, figliuolo di Gervia e fratello di Gioab. Si misero dunque Davide e Abisai fra le tenebre, ma non sì che non discernessero innanzi a’ lor passi le cose: e passavano tra la turba, tutt’intorno giacente come cadaveri d’uomini morti, passavano ora cansando un fascio di lance ritte l’un all’altra a contrasto, ora un cavallo giacente, ora un uomo che sta col petto scoperto e le braccia distese per la terra come su largo letto di piume: passavano cansando gl’inciampi, come fa per la china il ruscello che or volge a destra le docili piccole onde, ora a manca, secondo che l’incontra di qui o di lì un masso ignudo, o un’isoletta di pianticelle allegro-verdeggianti: passavano cauti ma risoluti, com’uomini destri a schivare pericoli, ad abbaccare fossi, a correre su tremole travi che accavalciano il torrente, a saltellare quasi in danza su ponte di taglienti macigni. Davide andava innanzi, Abisai dopo. Così vennero alla tenda di pelli tesa per riparare i sonni del re: e videro Saul che giaceva sopra pelli distese, e aveva da capo la lancia confitta in terra.
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