L'Arcivescovo assonnò col vino le guardie (le guardie erano tedesche) e fuggì dalla prigione di Piacenza. Fu accolto trionfalmente in Milano, e si preparò con ogni maniera di difese a sostenere l'assedio, che gli avrebbe messo l'Imperadore. Erano tutti di un'animo coll'Arcivescovo nella ripulsa dei Tedeschi. Questi vennero: trovarono difficile la presa di Milano, si gittarono rabbiosamente sul contado, il quale, secondo il loro antico vezzo, misero a sangue ed a fuoco. Il cielo li punì colle tempeste e le folgori: dalle quali spaventati si avviarono per la Puglia: ma non essendo propizia la dolcezza di quel clima alla ruvidezza di quei corpi, si ridussero in Germania poco men che distrutti da una fiera morìa. E questo fu poi il metro con cui andavano sempre le cose tedesche in Italia. Venivano, disertavano, insanguinavano il paese: incominciavano gl'Italiani dal fiaccar loro le corna, finivano i Cieli consumandoli coi morbi, che metteva tra loro la stranezza dell'aere, la intemperanza degl'improvisi piaceri. Con queste venute gl'Imperadori credevano rinfrescare le ragioni di dominio sull'Italia.
Infuriava ognor più Corrado contro l'indomito Arcivescovo. Stimolò i Principi ed i Vescovi italiani a corrergli addosso; promise scendere con nuovo esercito. Ma poco pro facevano le parole imperiali. Erano tutti i Lombardi venuti d'accordo a gittarsi del collo l'impronto giogo forestiere, e far da loro in cosa propria18. Perciò il Prelato milanese non si lasciò sopraffare, e Corrado se ne morì colla vendetta non disfogata.
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