Lodi sfuggitagli dalle mani, Trezzo distrutto, la Lega già potente avevano ammaestrato il Barbarossa, che la furibonda tirannide poteva contristare ed uccidere i corpi, non però rimutare le anime Lombarde. E nella disperazione, in cui l'aveva traboccato il repentino esterminio dall'esercito, forse pensava allentare le briglie dello stemperato imperio, e con cesarea clemenza medicare le piaghe, che aveva aperte nella misera Lombardia. Ma quelli non eran più tempi di clemenza ma di giustizia, di cui lo minacciava la terribile iracondia di un popolo, che inascoltato colle croci in mano, ora gli gridava sul capo colle spade in pugno.
Lasciato in Viterbo l'ambizioso Pasquale, e con ogni cautela schivate le città entrate nella Lega Lombarda, chiuso tra il mare e l'Appennino, campeggiava in Val di Magra il violento Imperadore. Poche e scorate milizie gli avanzavano; temeva le primizie del Lombardo sollevamento; ai riposi della reggia sospirava. Tentò il varco dell'Appennino; glielo negò Pontremoli: lo rigettarono i Lombardi gelosi dei primordi della loro Lega310. Federigo non sarebbe più tornato in Italia, le Repubbliche non avrebbero aspettato il loro trionfo nella pace di Costanza, se quelli avessero voluto finirla con un bel colpo di mano, assalendolo in quelle angustie. Ma li rattenne il sagramento di mantenere la fede a chi non la conobbe mai, e quella tale timidezza di consigli, che chiamano moderazione, snervatrice del primo rilevarsi di un popolo. I gioghi, se non si vogliono, vanno spezzati, e non piegati.
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