Perciò tenne fino all'ultimo l'esercito sotto il proprio entusiasmo, quando già da tempo la nazione si era straniata da lui. Perciò, quando tornò nei cento giorni, fitte schiere di sottufficiali congedati lo accolsero con acclamazioni frenetiche per le scale e le anticamere delle Tuileries: quell'esercito di lanzichenecchi era il popolo di Napoleone. Perciò nella poesia di tutti i popoli è celebrato in figura di un gran principe guerriero, come Attila e Gengischan, laddove il filosofo, l'uomo, il re Federico viene sovente glorificato dall'arte come l'eroe delle genti. I puri monarchi vivono nella memoria degli uomini come legislatori e fondatori di stati, perché ancora più grandi in pace che in guerra. Il poeta svevo glorifica l'aquila di Federico, che copre con le sue ali d'oro gli abbandonati, i senza patria. Il nome di Napoleone sonerà all'orecchio delle generazioni venture come il fischio echeggiante delle palle e il rimbombo del cannone.
La guerra fu economicamente e moralmente la forza animatrice del suo governo: economicamente, perché col modesto sviluppo del benessere interno il bottino dei paesi stranieri offriva l'aiuto indispensabile a sostenere la dispendiosa amministrazione burocratica; moralmente, perché egli sapeva, e il pretendente Luigi Bonaparte lo ha sovente confessato, che le aspirazioni di libertà si potevano stordire solamente con la pompa guerriera e la gloria. Era un dominatore troppo grande per concepire che un regno potesse sostenersi senza entusiasmo e passione.
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