Cotesto vano baloccarsi con le antiche reminiscenze ebbe un nuovo rigoglio durante la Rivoluzione, per ciò appunto, che gli eroi repubblicani dell'antichità furono prediletti e celebrati e scimmiottati: pudibondi eroi di virtù, incedenti sui trampoli, senza carne e senza sangue, quali Plutarco li ha descritti e Rousseau levati al cielo. In ogni club si ergeva un Catone, un Bruto, un Aristogitone in berretto rosso, e domandava che fosse pronunziato il videant consules, se mai la repubblica non fosse per incorrere nelle forche caudine. L'Anacreonte della ghigliottina spediva con sconci lazzi le sue vittime alla morte. Pindaro Lebrun cantava in ampollosi peani la gloria della repubblica. I bravi allobrogi danzavano in Savoia la carmagnola intorno all'albero della libertà, e la dominante repubblica prendeva sotto la sua protezione le repubbliche figlie di Batavia, di Partenope, della Cisalpina. Se il culto cesareo dell'antichità menò alla morte della libertà, noi nello sfatto catonismo dei giorni repubblicani possiamo riconoscere il sintomo della stessa vanità, dello stesso morbo politico. Allora come ora la nazione trattava con la fantasia le rigide bisogne della politica, crapulava in vuoti fantasmi di sogno, delirava per particolari personaggi, invece d'intendere a mente pacata le istituzioni date, e di perfezionarle. Proprio così: il catonismo della rivoluzione non può non apparire a un occhio sincero altrettanto falso e caricato, quanto il culto cesareo del tempo dei Borboni.
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