Egli era in carattere, quando raccontava ridendo ai capi scoronati dell'antico regime: "al tempo che ero un semplice luogotenente di artiglieria...", oppure quando invitava il principe Guglielmo di Prussia alla caccia alla lepre il giorno dell'anniversario di Jena. Se nelle udienze dava le spalle ai principotti della confederazione renana con un assai spicciativo ancienne connaissance, o se lanciava al re di Baviera il suo tonante il faut, il faut! certamente egli dava ai servi solo ciò che loro spettava: ma un siffatto contegno non annunzia alti sensi. Alle formalità dell'etichetta l'uomo geniale badava grettamente, come un lacché insignorito: non seppe perdonare mai al re di Prussia di essersi presentato a Tilsit in tschacko e con un paio di baffetti sul labbro. E bisogna convenire che anche meschina e volgare fu la sua politica di famiglia, la sollecitudine pei più indegni dei suoi parenti, che non proveniva da amor fraterno né giovava ai suoi disegni di signoria mondiale. Anche più significativo è il suo comportamento nella sfortuna. È nota la scena di Dresda, quando Federico Augusto di Sassonia aspettava in anticamera l'imperatore ritornato improvvisamente dalla Russia. Per causa di quell'uomo, centomila uomini giacevano sepolti sotto la neve, e mai il destino aveva parlato così spaventosamente. Ma egli entrò nella stanza canterellando una canzonetta parigina: il satrapo doveva intendere, che l'animo del re dei re non era intaccato. A Smorgoni, a Lipsia, alla Belle-Alliance, tre volte era fuggito abbandonando, tutt'altro che cavallerescamente, l'esercito.
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