La nobiltà non aveva in orrore lo spirito dispotico della nuova burocrazia, ma i suoi meriti: la sua cultura civile moderna, la libertà della carriera, il diritto comune che tutelava. Dovunque, dagli Etudes di Polignac come dalle confessioni delle teste calde del partito, s'intravvede la speranza che i principi reali e i governatori appartenenti all'alta nobiltà tornino nuovamente a reggere le antiche provincie ripristinate; e segretamente già si lavorava, per introdurre il requisito della nobiltà nei membri dei consigli generali e distrettuali. Si affacciava in tal modo la desolante minaccia di una nuova Lega, di una nuova Fronda, di una distruzione dell'unità statale gloriosamente raggiunta. Tutto ciò che era vitale e moderno nella nazione insorse contro una tale pazzia. E come un tempo la Convenzione aveva condotto la guerra di sterminio alle provincie per completare la Rivoluzione, così ora la nazione dové tenersi alla dittatura degli uffici di Parigi per evitare che l'opera della Rivoluzione fosse di nuovo messa a repentaglio.
Insomma, e intendiamolo bene, l'amministrazione napoleonica era dunque nazionale. In questa, nel codice, nella nuova organizzazione napoleonica delle finanze e dell'esercito aveva trovato la sua conclusione naturale un antichissimo svolgimento politico, laddove il giovine istituto parlamentare era evidentemente e rimaneva un esperimento tirato fuori dalle teorie del diritto naturale, e dall'inconsulta scimmiottatura dello stato inglese. Non è un caso, che la lingua la quale ha trovato il nome della sovranità, non sappia rendere l'idea dell'autonomia dell'amministrazione.
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