Il pittore David, il vecchio giacobino rigido, celebrò in lettere ampollose la grandezza dell'impero. Edgardo Quinet, che più tardi si adoprò a diffondere nel suo paese un giudizio equanime sulla Rivoluzione, a trent'anni ripete fedelmente, nel suo ciclo di canti "Napoleone", tutti i dommi della religione napoleonica, e mise in bocca al despota le parole: j'ai couronné le peuple en France, en Allemagne. Se gli uomini più notevoli servivano con tanta compiacenza il feticismo nazionale, s'intende anche quanto si desse da fare il formicaio affaccendato della genticciuola del Parnaso. Spogliando le appendici di trenta o quarant'anni dopo, ci si stupisce a incontrare quasi in ogni numero i souvenirs de l'empire. Tutti i teatri dei boulevards compravano le vecchie uniformi della guardia dell'imperatore, e rappresentare l'imperatore col suo piccolo cappello costituiva il pezzo di bravura di ogni caratterista. È chiarissimo seguire il modo con cui questo gioco della fantasia, procedendo timido e riservato sul principio, poi in seguito lasciò andare a mano a mano la vergogna e il buonsenso e arrivò fino all'assurdo sfacciato. Le poesie francesi tradotte da Byron biasimano ancora la sete di sangue dell'imperatore, lamentano che un Napoleone si sia potuto trasformare in sire, l'eroe precipitare a re. Ma come il ricordo delle malefatte dell'imperatore veniva via via sempre più impallidendo, l'infatuazione invece saliva fino all'inconscia e schietta bestemmia. Dopo la morte della vecchia Letizia, i giornali riportarono una poesia di Blanchemain con versi come i seguenti:
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