Anche sugli Orléans cadeva un poco dell'esecrazione ai Borboni, e pel popolo Luigi Filippo rimase uno straniero. Esaurite le variazioni del motteggio sull'ombrello reale, la stampa si mise a rosolare la persona del re e la sua testa a pera con una ironia amara, con una impertinenza che nessuno aveva mai arrisicato nemmeno contro Carlo X. La diffidenza dell'opinione pubblica seguiva ogni suo passo, faceva di lui l'uomo meno libero del suo popolo: egli non si risolse mai a sostenere neppure una volta un'impresa teatrale, per tema che la nazione non avesse a fiutarvi la speculazione e la cupidigia. Ma bisogna, del resto, biasimare la ferocia di una febbrile lotta di partito: che non era affatto un vero francese cotesto re, l'astuto mercante, che non era mai stato giovine, che aveva strisciato sulla via del trono attraverso piccoli intrighi codardi, che anche da re esercitava l'antico mestiere di droghiere indecoroso anche per un principe, che non ostante tutta la sua esperienza del mondo non aveva mai conosciuto la potenza vivificatrice delle idee, che con tutta la sua clemenza non aveva mai compreso il più bel dovere della regalità, la protezione degli oppressi, e che non ostante la sua "rispettabilità" borghese era pronto alla birbonata, come quando aveva rotto la fede al prigioniero Abdel Kader. Anche le virtù della sua vita domestica borghesemente semplice rimasero incomprese a questo popolo cavalleresco.
Davanti alla nazione il suo Guizot era quasi più straniero ancora. Ai francesi riusciva simpatica e tollerabile la fatua vanità, ma non mai e in nessun modo l'arida noia di quella sofisticheria implacabilmente pedante.
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