Una credenza fatalistica nella sua stella, potente come un'idea fissa, si era impadronita di quella testa fredda. L'impazienza dell'ambizione lo buttò capofitto nella rivoluzione di Romagna: il giovine soldato vi apparve in atteggiamento abbastanza guascone, su un destriero in gualdrappa bianca, rossa e verde; mentre suo fratello parlava minaccioso della forza invincibile che li seguiva. La conseguenza naturale di questa levata di scudi fu l'espulsione di tutti i Bonaparte da Roma. Seguì il misterioso soggiorno a Parigi, durante il quale il principe iniziò la trama di una congiura, almeno a quanto afferma solennemente il duca d'Aumale; e ne prese conoscenza e animo per avere a vile la debolezza del nuovo regime. La madre si rifiutò di comprare con la rinunzia al suo gran nome la libera dimora del figlio in Francia. Talché, dopo una breve fermata a Boulogne e una visita al monumento di Napoleone sui campi dove un giorno si era adunato l'esercito di Austerlitz, si ritornò allo spatriamento. Ma le fila della propaganda democratica arrivavano anche alla quieta Arenenberg. Il principe si teneva in relazione coi profughi polacchi, tra le cui fila aveva testé combattuto il suo parente Walewski. Egli era "superbo di essere annoverato tra gli sbanditi, perché oggi l'esilio è la sorte di tutte le anime nobili". S'illuse ai sogni filellenici, e plaudì a ogni moto che minacciò di lacerare il trattato del 1815. Di tanto in tanto arrivava da Parigi qualche malcontento, e recava al napoleonide il promettente saluto gridatogli dal vecchio Chateaubriand: "il passato ritorna, per salutare il futuro".
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